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Testimonianza n. 3. Alcune riflessioni che vengono dalla letteratura.

Mi è stato chiesto un breve scritto su come sta cambiando il mondo del lavoro al tempo del Covid-19 e su come sta cambiando la nostra vita professionale. Probabilmente farò la fine che feci nell’82 all’esame di maturità, quando andai fuori tema e presi 3+: 3 perché, appunto, fuori tema; “più” perché, comunque, era ben scritto. Chiedo scusa se non elencherò le differenze tra il mio mondo del lavoro prima e dopo l’avvento del coronavirus, e domando venia anche perché mi sa che non sarò neppure breve. Vi propongo, invece, una manciata di passaggi di scrittori e pensatori che avevano visto lontano e che, come spesso succede, non sono stati ascoltati, o meglio, non sono stati letti.

Inizio con qualcosa di Huxley, da “Ritorno al mondo nuovo”, datato 1958: “La malattia intensifica la suggestionabilità. Infatti nei secoli passati le corsie degli ospedali furono teatro di innumerevoli conversioni religiose. Il dittatore scientifico di domani riempirà gli ospedali di altoparlanti e i cuscini di microfoni. Ventiquattro ore al giorno trasmetteranno persuasione in scatola; i pazienti più importanti saranno visitati da tecnici specializzati nella salvezza politica delle anime e nella mutazione dei cervelli, allo stesso modo che in passato i loro predecessori ricevevano le visite dei preti, delle monache e dei laici devoti”.

Anche Zerzan ha qualcosa da dire sulla malattia, nel suo “Future primitive and other essays” del 1994 scrive: “Prima della civilizzazione la malattia praticamente non esisteva. Come poteva essere altrimenti? Da dove provengono le malattie degenerative e infettive, i malesseri emotivi e tutti gli altri disturbi se non dal lavoro, dalla tossicità, dalla città, dall'estraniazione, dalla paura, dall'insoddisfazione, dall'intero tessuto di una realtà deteriorata e alienata? Distruggendone la fonte si sradicherà la sofferenza. I piccoli disturbi si potrebbero trattare con erbe e rimedi analoghi, senza parlare di una dieta basata su alimenti sani e non trattati”.

E allora a questo punto andiamo a leggere cosa riporta Vaneigem nel “Trattato del saper vivere” del 2006 su questa realtà deteriorata e alienata: “Eccoci al tempo degli orologi. L’imperativo economico converte ogni uomo in cronometro vivente, segno distintivo al polso. Ecco il tempo del lavoro, del progresso, del rendimento, il tempo di produzione, di consumo, di pianificazione; il tempo dello spettacolo, il tempo di un bacio, il tempo di un cliché, il tempo per ogni cosa (time is money). Il tempo-merce. Il tempo della sopravvivenza”.

Tempo del rendimento, scriveva Vaneigem; guardate cosa sosteneva Orwell sull’efficienza ne “La strada di Wigan Pier” (1937): “Tutto il progresso meccanico tende a una sempre maggiore efficienza: in ultima analisi, dunque, a un mondo in cui non avvengono errori. […] In un mondo dal quale il pericolo fisico fosse stato bandito – ed evidentemente il progresso meccanico tende a eliminare il pericolo – avrebbe il coraggio fisico qualche probabilità di sopravvivere? Potrebbe sopravvivere? E perché la forza fisica dovrebbe sopravvivere in un mondo dove non ci fosse più la necessità di lavorare con le braccia? Quanto a virtù quali la generosità, la fedeltà, ecc. in un mondo dove non avvenisse mai nulla di errato, sarebbero non solo irrilevanti, ma probabilmente inimmaginabili. Il fatto è che molte delle qualità che ammiriamo negli esseri umani possono funzionare soltanto in opposizione a qualche genere di disastro, dolore o difficoltà; ma la tendenza del progresso meccanico è di eliminare disastri, dolori, difficoltà”.

Eliminare disastri, dolori, difficoltà; quindi, uno “star meglio”. Su questo Ivan Illich ci fa notar una cosa nel suo saggio “La convivialità” (1973): “Una società impegnata nella corsa allo «star meglio» sente come una minaccia l'idea stessa di una qualsiasi limitazione del progresso. È così che l'individuo che non cambia oggetti o terapie conosce il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire.Il cambiamento accelerato produce su di lui gli stessi effetti che l'assuefazione a una droga: si prova, si ricomincia, ci si abitua, si crede di potersi controllare, ci si ammala, si crolla”.

Ma serve davvero correre, progredire illimitatamente, accelerare? È ancora Illich a offrirci un’osservazione che non sottovaluterei, in “Per una storia dei bisogni” (1977): “Nel Vietnam un esercito super-indu strializzato ha cercato di domare, senza riuscire a batterlo, un popolo che si muoveva alla velocità della bicicletta. La lezione dovrebbe esser chiara. […] Resta da vedere se i vietnamiti applicheranno all'economia di pace ciò che hanno imparato in guerra, se vorranno proteggere quei valori che hanno reso possi bile la loro vittoria. E’ ahimè probabile che, in nome, del progresso e di un maggiore impiego di energia, i vincitori finiscano per sconfiggere se stessi distruggendo quella struttura equa, razionale e autonoma cui i bombardieri americani li avevano costretti privandoli di combustibili, di motori e di strade”.

Sbaglierò, ma le letture in mio possesso mi dicono che i vincitori, i vietnamiti, non hanno applicato all’economia di pace ciò che hanno imparato in guerra. Pare che anche lì il progresso sia stato strumentalizzato dal potere; un po’ come scriveva Orwell nel suo “1984”, datato 1948: “Il potere consiste nell’infliggere la sofferenza e la mortificazione. Il potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di nostro gradimento. Riesci a vedere, ora, quale tipo di mondo stiamo creando? […] Un mondo di paura, di tradimenti e di torture, un mondo di gente che calpesta e di gente che è calpestata, un mondo che diventerà non meno, ma più spietato, man mano che si perfezionerà. Il progresso, nel nostro mondo, vorrà dire soltanto il progresso della sofferenza. […] Nel nostro mondo non vi saranno altri sentimenti che la paura, il furore, il trionfo, e l’automortificazione”.

E visto quanto – soprattutto in questo periodo – siamo mass-media-dipendenti, concludo con lo stesso testo con cui ho iniziato, “Ritorno al mondo nuovo” di Huxley: “Oltre che la radio, l’altoparlante, la cinepresa e la rotativa, i propagandisti d’oggi possono usare la televisione per trasmettere immagini e voce del loro cliente, registrare immagine e voce su rocchetti di nastro magnetico. Grazie al progresso tecnologico, il Grande Fratello, oggi, può diventare pressoché onnipresente, come Dio”.

Meditiamo gente, meditiamo.

Va da sé che ogni riferimento a persone esistenti e a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Marco Sommariva



locandina evento
Il libro comprende un centinaio di interviste di artisti, politici e intellettuali che raccontano il proprio punto di vista sugli anni Settanta, il decennio artisticamente più prolifico del secolo scorso, da John Mayall a Claudio Lolli, da Jean Luc Ponty a Ugo Gregoretti, da Joan Armatrading a Moni Ovadia passando per Ares Tavolazzi, Patrick Djivas, Robin Hitchcock, Gianfranco Manfredi, Enrico Ruggeri, Bruno Bozzetto, Sergio Cammariere, Lina Sastri, Fausto Amodei e tanti altri. Per gentile concessione degli autori è possibile leggere l’intervista a Marco Sommariva.
Quali sono i tuoi punti di riferimento culturali della controcultura del decennio dei 70?

Diciamo che mentre il grande pubblico acquistava i dischi dei Pooh, di Fausto Papetti, Barry White, Donna Summer, Gloria Gaynor, Mina, Ornella Vanoni, Claudio Baglioni o la colonna sonora de “La febbre del sabato sera” e di “Grease”, io ascoltavo la PFM, Edoardo Bennato, Ivan Graziani, Rino Gaetano, De André, Finardi, De Gregori, Vecchioni, Patti Smith, Bruce Springsteen, Bob Marley, Bob Dylan, i Television, gli Ultravox o la colonna sonora di “Jesus Christ Superstar” e de “L’esorcista”; che mentre si riempivano i cinema per le pellicole con Renato Pozzetto o Adriano Celentano, o per film come “Lo squalo”, “Rocky”, “Il padrino” e “Lo chiamavano Trinità”, io m’interessavo alle storie di “Tommy” e “Sacco e Vanzetti” o alle dinamiche che portano Christopher Walken a spararsi ne “Il cacciatore” o a lobotomizzare Jack Nicholson in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” oppure a cercare di capire da dove venivamo con “Novecento” o dove stavamo andando con “Arancia meccanica”; che andavo in edicola per comprare Il Male e non il Guerin Sportivo, le Sturmtruppen e non Superman; che leggevo libri come “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”, “La ciociara”, “Marcovaldo”, “Il barone rampante”, “Cuore di cane” o “Il gabbiano Jonathan Livingston”.

Genova è anche De André e Don Gallo. Qual è il loro messaggio più importante?

Credo sia stato il dar voce alle anime fragili, agli emarginati, agli ultimi: le minoranze – omosessuali, transessuali, zingari, vagabondi, malati di mente, Indiani d’America, profughi, etc. – e coloro che vengono definiti perdenti – tossicodipendenti, prostitute, disoccupati, carcerati, chi popola le periferie urbane, etc. Non posso, però, dimenticare come entrambi hanno saputo parlare dell’idiozia della guerra e invitato alla disobbedienza, a camminare in direzione ostinata e contraria. Insomma, è soprattutto grazie a loro due se a chi vota la sicurezza e la disciplina, a chi teme la paura di cambiare, c’è ancora qualcuno capace di gridare forte che per quanto si credano assolti sono per sempre coinvolti.

Marco, quanto è presente nella tua scrittura, la ribellione e la resistenza che avevano gli anni 70?

Se raffronti chi e cosa cito nella mia prima risposta e la mia data di nascita (1963) dedurrai immediatamente che quasi tutta la mia adolescenza è stata segnata dagli anni Settanta, e visto che sono d’accordo con quanto ha scritto Jonathan Lethem ne “La fortezza della solitudine”, che siamo ostaggio della nostra adolescenza, è innegabile che l’intera mia scrittura è intrisa di quelle ribellioni, resistenze, anche quando scrivo gialli ambientati ai giorni nostri o saggi sulla letteratura americana o italiana. Per rendere l’idea di come interpreto la scrittura, prendo a prestito una strofa degli Area e la modello a mio comodo: “Il mio mitra è una penna che ti spara sulla faccia, che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita.”; ecco ciò che faccio: uso parole come pallottole, con l’intento di ferire, stordire, annichilire, ma anche svegliare, invogliare, allertare. Per restare in tema, con la scrittura riesco a gridare forte che per quanto vi sentiate assolti siete per sempre coinvolti, per esempio. Ma non solo, ogni mio scritto prende vita solo se lo indirizzo in direzione ostinata e contraria; diversamente, muore: infilzato dalle radici della mia storia famigliare, le uniche che nessuno potrà mai sradicare.

Gianfranco Manfredi ha curato la postfazione al tuo romanzo “Fischia il vento”. Tu che ricordi ed impressioni hai del '77?

Durante le presentazioni dei miei libri o durante alcuni spettacoli che porto in giro insieme ad alcuni amici musicisti, ho più volte ricordato in quanti, nel ’77, “tifavamo” per le Brigate Rosse: tanti. So bene che pochi lo ammettono, ma era così: se in classe si era in trenta, eravamo in venticinque a godere, esultare per ogni gambizzazione o peggio ancora; e aggiungo che degli altri cinque, uno s’indignava, non di più, gli altri se ne fregavano altamente. Nota bene, non sto dicendo che era giusto, sto dicendo che questa era la realtà che si viveva a Genova in quegli anni. Quando m’invitano in Romagna, in Abruzzo, nelle Marche, e racconto questi anni, i miei coetanei strabuzzano gli occhi: è una realtà che loro non hanno neppure immaginato. Del resto, è sempre stato così, il tuo destino è segnato dal luogo in cui nasci, dalla famiglia e gli ambienti in cui cresci, così come dal periodo storico che vivi. Come ho avuto modo di scrivere ne “Lottavo romanzo”, la differenza fra il sottoscritto (incensurato) e un amico romano che ha scontato oltre vent’anni di galera, ex brigatista rosso e che, fra le altre cose, ha partecipato al sequestro Moro, non sta nel fatto che avevamo un’idea molto diversa, ma in quelle strane combinazioni per cui uno si ritrova con una pistola in mano e l’altro no. La voglia di sparare perché la classe operaia non continuasse a subire, per un mondo più giusto, c’era; il rancore verso uno Stato ingiusto era palpabile, e non solo nelle scuole e nelle fabbriche, lo era anche nei negozi, nei bar, per strada. Ripeto, non sto dicendo che era giusto ragionare così, e infatti che c’era qualcosa di sbagliato lo capimmo in tanti quando uccisero Guido Rossa: andammo quasi tutti in tilt quando si sparse voce che le Brigate Rosse avevano ucciso un operaio. Quell’episodio portò molti a ripensare le forme di ribellione, di resistenza; come ho scritto nel romanzo citato prima, personalmente ringrazio l’anarchia che mi ha fatto deporre le armi che lo Stato voleva farmi impugnare. Arrivati a questo punto permettimi di ritornare sulla tua domanda precedente e ricordare un passaggio della postfazione di Gianfranco Manfredi al mio “Fischia il vento”: “Marco Sommariva è un libertario, come me, ma l’ho scoperto dopo, leggendolo e ritrovandola, questa sua anima anarchica, nel suo stile. Il che è come dire che un anarchico lo si riconosce da come cammina, non solo per la direzione che imbocca. Del resto è anche genovese, come De André, come Paoli, tanto per dirne due, di anarchici naturali, di mare e di vento, di carne e di sangue, di prosa lirica senza lirismo, di realismo non compiaciuto e non avaro di sogni, di sensuali abbandoni senza culto della decadenza, di profonda misura interiore mai rinchiusa nel soggettivismo dei solipsisti. Un autore trasparente perché è solo la trasparenza che ci conduce oltre l’ostacolo.” Ti rubo ancora un po’ di spazio perché mi fa piacere aggiungere che la prefazione a “Fischia il vento” è di Don Gallo e che, per questo romanzo, hanno speso parole bellissime anche personaggi quali Giovanni Pesce e Giuliano Montaldo.

Perché le generazioni successive hanno perso quel dinamismo? Quale è stata la causa scatenante?

Prima parlavo di quanta importanza ha sul proprio destino, fra le altre cose, il periodo storico che ci si ritrova a dover vivere. Mio padre aveva dodici anni nel ’43, durante la seconda guerra mondiale, coi fascisti al potere, e non andava più a scuola da un pezzo perché doveva lavorare per portare a casa qualche quattrino, erano anni di miseria; io dodici anni li avevo nel ’75, durante gli “anni di piombo”, con la Democrazia Cristiana al governo, e non ho avuto grandi difficoltà a trovare lavoro dopo essermi diplomato, nei primi anni ‘80; mio figlio, che dodici anni li aveva nel 2009 quando Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e da anni l’esercito italiano sprecava denaro e militari in “missioni di pace” in giro per il mondo, dicevo… mio figlio sta progettando di andare a lavorare all’estero, visto che in Italia non pare più esserci modo di trovare un’occupazione capace di garantire al lavoratore un minimo di dignità. Ho idea che, fra i tre, sia stato io il più fortunato. Per questo mi verrebbe da dire che mentre la generazione di mio padre ha saputo costruire un mondo migliore per i propri figli, la mia generazione non è stata in grado di fare altrettanto. Siamo noi che da più di vent’anni delocalizziamo le produzioni all’estero per risparmiare sulla mano d’opera, noi ad aver svenduto le nostre conoscenze per un pugno di maledetti denari, e siamo sempre noi ad aver fornito i nostri figli di divani su cui sdraiarsi, PlayStation dove spegnersi, iPhone con cui isolarsi, sale da gioco dove impoverirsi, droghe a ogni angolo di strada per non pensare, dimenticare, e non è un modo di dire: so di madri di famiglia che mentre vendono pane, focacce e pizze, spacciano regolarmente in negozio, sottobanco, a ogni ora del giorno, e di esempi di questo genere potrei farne a decine. Credo si stia raccogliendo i frutti di quel che abbiamo seminato: “quel dinamismo” s’è esaurito davanti a uno schermo, a una slot machine, a un paradiso artificiale. Probabilmente il vuoto pneumatico che abbiamo originato nelle generazioni che ci hanno seguito è nato quando abbiamo smesso di parlare in casa di come ci siamo liberati da un regime fascista e di quanto abbiamo lottato per ottenere quei diritti sul posto di lavoro che, piano piano, ci stanno togliendo. Chiedere scusa ai nostri figli non basterà. Purtroppo.

D: Buongiorno Marco. Com'è nata l’idea di “Esci dal guscio!”?

R: Buongiorno. È nata circa un anno fa, dalle assemblee di Genova Antifascista; durante questi incontri avevamo tutti la stessa sensazione, che i pochi giovani che s’avvicinano alla politica – intesa come “ciò che appartiene alla dimensione della vita comune” – restino affascinati da qualcosa che troppo spesso ha a che fare col fascismo, o meglio, a quel sottile neo-fascismo dei giorni nostri, capace d’insinuarsi nelle menti con la ruffiana semplicità della ricetta “dio-patria-famiglia” che da un secolo a questa parte ci viene servita da più parti, e che troppo spesso si traduce nel dar libero sfogo a machismo, razzismo, xenofobia, omofobia e a tutte le altre forme d’odio di cui l’essere umano è capace. Preoccupati da questa sensazione, ci siamo chiesti quale poteva essere il veicolo adatto per raggiungere i ragazzi, e alla fine abbiamo ritenuto la storia a fumetti il giusto mezzo per riuscire a stimolarli come desideravamo noi, affrontando tematiche delicate come quelle citate prima, senza quella faciloneria che pare, ormai, farla da padrona un po’ ovunque, dalla TV ai Social a certa stampa e, di conseguenza, all’uomo della strada.

D: Ci racconti qualcosa del fumetto?

R: I disegni sono di un giovane disegnatore manga genovese, Giulio Sciaccaluga; la prefazione è di Maurizio Maggiani che non credo abbia bisogno di essere presentato; storia e sceneggiatura sono mie. Per raggiungere un pubblico il più vasto possibile, ho pensato una storia a strisce, abbinando a ognuna di queste una frase tratta dai classici della letteratura; ovviamente, un estratto che avesse senso con ciò che accadeva nella vignetta a fianco. E per fortuna è andata così, abbiamo coinvolto studenti dagli undici ai diciotto anni; mentre i ragazzi delle medie s’immedesimano più facilmente nella storia disegnata, i ragazzi delle superiori iniziano a ragionare su un diverso livello di lettura, quello necessario ad affrontare estratti da romanzi come “Delitto e castigo” di Dostoevskij, “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, “Germinal” di Zola o “Memorie di Adriano” della Yourcenar, per fare solo alcuni esempi di tutte quelle citazioni di cui parlavo prima. Citazioni che accompagnano il lettore fino alla Quarta di Copertina, dove due passaggi di un romanzo del 1889 di Edmondo De Amicis, “Sull’oceano”, ci permettono di ricordare che cent’anni fa eravamo noi italiani – liguri, piemontesi, veneti, etc. – a imbarcarci per cercar fortuna in un altro continente.

D: Il fumetto ha un costo per le scuole? Chi fosse interessato, come può procurarselo?

R: Il fumetto lo distribuiamo gratuitamente a tutte le scuole genovesi che ne fanno richiesta, senza alcun limite di copie – in un’occasione abbiamo consegnato oltre trecento fumetti. Per contattarci si può scrivere alla pagina facebook.com/EscidalguscioProject/

D: Dirigenti scolastici, insegnanti e alunni come hanno risposto?

R: Alcuni dirigenti ci hanno detto “no” evitando così, a detta loro, problemi coi genitori degli alunni, certi del fatto che tanti di loro non avrebbero gradito questa nostra… diciamo così… “intrusione”; alcuni ci hanno detto “sì”, ma solo per ricevere copie del fumetto; altri, invece, hanno detto “sì” al fumetto e alla nostra partecipazione in classe: personalmente sono stato in una dozzina d’istituti, ho condiviso con oltre cento classi la lettura del fumetto proiettato nelle loro aule e ho distribuito oltre mille copie di “Esci dal guscio!”. Visto che, come dicevo prima, tante altre copie ci sono state richieste per essere distribuite direttamente dagli insegnanti, a oggi abbiamo ancora a disposizione solo quattrocento copie delle quattromila stampate lo scorso febbraio; per questo, a inizio anno nuovo andremo in ristampa: diversamente non riusciremmo a soddisfare le continue richieste. I ragazzi? Sono meglio di quel che credevamo: razzismo, xenofobia, omofobia, etc. non gli appartengono; piuttosto, capita che denuncino atteggiamenti scoraggianti degli adulti: dei genitori, dissociandosi da questi, e in un paio di occasioni degli insegnanti. Chissà, forse andrebbe pensati altri fumetti; per mamme e papà e, a quanto pare, anche per alcuni docenti.

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“Le verdi praterie” parla di qualcosa di cui ormai si è quasi del tutto persa la memoria; mi riferisco a persone e fatti che hanno animato soprattutto gli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche quelli arrivati sulla loro scia. Le pagine di questo libro sconfiggono le leggi del tempo, dimostrano che possono trascorrere secoli nell’arco di pochi decenni. Nella manciata di lustri che ci separa dal periodo che fu definito “boom economico” e dalle speranze che animarono subito dopo generazioni di giovani e non, alcune cose sono morte (metodicamente uccise) e così ben sepolte da non ricordarcene più; stagioni in cui in Italia ci si occupava davvero di politica, con la gente che si appassionava realmente ai problemi del Paese – quindi, di tutti – persone con difficoltà ad arrivare a fine mese ma arricchite da idee da difendere e diffondere, e pazienza se il troppo ardore dava vita a manifesti di propaganda che arrivavano a rivolgersi agli elettori (in questo caso comunisti) con avvertimenti del tipo “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no.” È salutare farsi accompagnare dall’autore a prendere una boccata d’aria in quegli anni: un po’ di ossigeno ci aiuterà a sopravvivere sotto l’attuale cappa (sempre più spessa) di rimbecillimento partitico-religioso.
Negli scorci di vita quotidiana raccontati da Gurrieri, ritroviamo le contrapposizioni di quel fare politica appassionatamente: Il giorno che feci la prima comunione e la cresima, dopo aver frequentato assiduamente il catechismo e i corsi preparatori, a papà non passò nemmeno per l’anticamera del cervello di venire in chiesa, e se ne andò in piazza a vendere “L’Unità”; io, mamma, col mio amico Angelo, ci recammo da soli alla cerimonia che doveva sancire la mia iniziazione alla vita nella Chiesa di Cristo; fra le tante altre cose, in questi scorci riviviamo anche le balbettanti educazioni cattoliche classiche di quegli anni, faticose da intendere, capaci solo di deludere: Una mattina presto verso il Sessantaquattro; era ancora buio, e suonarono alla porta; sentii vagamente nel sonno disturbato la concitazione dei momenti straordinari, e subito dopo il calare del silenzio. Capii che doveva essere accaduto qualcosa che aveva a che fare con nonna Nunziata; forse era morta. Per scongiurare questa evenienza, scesi dal letto, mi misi in ginocchio e recitai una infinità di “avemariapienadigraziepregapernoipeccatorieccetera”, e anche “padrenostrocheseineicielisiasantificatoiltuonomeeccetera”; erano parole imparate a memoria senza coscienza del loro significato, replicate a pappagallo, ma che mi avevano detto possedessero un potere enorme capace di far intercedere Dio nelle cose terrene ad esaudimento dei nostri desideri. Quando mi vennero ad avvisare che la nonna era morta davvero, capii che non servivano a nulla.
In queste verdi praterie incontriamo personaggi che sembrano tagliati con l’accetta come il Peppone e il Don Camillo del Guareschi, ma non c’è da stupirsi, all’epoca si era davvero così: rudi, incapaci di raffinate disquisizioni teoriche, ma immediati, genuini – sia da una parte che dall’altra, come si diceva all’ora. Immediatezza, genuinità e passione che, oggi, troppo raramente ritroviamo in chi frequenta un Partito (non importa quale, neanche se mascherato da Movimento) e una Chiesa (non importa quale, neanche se mascherata dall’ennesimo Papa-Buono): Per noi di famiglia comunista, il partito era più che un’organizzazione politica; era relazioni, comunità, amicizie, lavoro, passione, scuola, chiesa, passato, presente e futuro. Non era pensabile un frammento di vita cui il partito fosse assente. Ai matrimoni e ai battesimi, alle feste consacrate e a quelle sconsacrate, nel dolore e nella gioia: lutti, nascite, malattie, era sempre l’ambiente del partito a ritrovarsi, con i grandi che attaccavano subito bottone sui fatti della politica o sulle questioni cittadine, sui problemi interni, sulle relazioni con gli altri partiti, sul sindacato.
Nella premessa di questo libro che racconta la generazione degli anni Cinquanta e Sessanta e del suo precipitoso transito nel XXI secolo, l’autore è chiaro, scrive che quella che ci si appresta a leggere non è un’autobiografia e che non ha la pretesa di raccontare una storia, ma che si soffermerà sulle tante storie che possono diramarsi dall’albero di una vita. Credo che in quest’albero scorra una linfa particolare: la nostalgia, sentimento da non confondere con la tristezza che affligge il depresso. Erroneamente si crede la nostalgia capace di soffocare la nostra vita nel passato, tenerci in ostaggio, chiuderci la porta della vita; non è così, anzi, nella nostalgia c'è fame di vita, di quanta se n’è fermata su cose, luoghi, volti, profumi, suoni, immagini, e di questa ci si nutre continuamente, così come ci si alimenta quotidianamente con memorie ed emozioni, ingredienti positivamente influenzati dalla nostalgia. Di certo la nostalgia ci costringe a guardare indietro, ma senza l’obbligo di allontanarci dal presente o dal futuro; è un sentimento che fa da malta, aiuta a ricostruire la nostra storia collegando gli anni che furono con i giorni nostri e, generando una visione positiva del passato, aiuta a dare continuità e senso alla vita presente e da venire. Quante volte ha dato continuità e senso alla nostra vita un semplice oggetto, luogo, volto, profumo, suono o un’immagine? Ecco qualche altro esempio di quanta e quale vita Gurrieri ha scelto di raccogliere, raccontare, custodire.
Oggetti: I giornali servivano per mille usi in una casa, tra le altre cose, a sostituire l’inacquistabile carta igienica; Mia madre acquistava ogni tanto una bottiglietta di birra che usava per i capelli al posto della lacca, prodotto per quei tempi costosissimo.
Luoghi:via Ibla, per la sua pendenza, era anche lo scenario per gare di calacipiti (attrezzo a due o quattro ruote realizzato con assi di legno e cuscinetti a sfera) spesso finite male, con dita e ginocchia scorticate.
Volti: Una mattina si presenta in stazione un vecchio arzillo dalla chioma bianca prolungata dietro il collo e dai modi gentili e ossequiosi.
Profumi: Ricorderò sempre l’odore dei contadini, un forte concentrato di fieno, formaggio, ricotta, forse anche cacca di mucche; un odore che oggi è sparito dai loro abiti, forse anche dalle loro case, ma che allora era il loro biglietto da visita, l’abito invisibile che vestivano, e che noi abitanti della città sentivamo forte e chiaro. Chissà se anche tra loro se lo sentivano addosso.
Suoni: Grazie a Radio Tunisi mi appassionai dei cantautori e degli interpreti migliori della canzone transalpina: Brel, Ferrè, Brassens, Ferrat, Moustaki, Barbara, Greco, Reggiani, Aznavour, e tutti gli altri, affinando nettamente i miei gusti; A casa di Nuccio, per la prima volta, ascoltai un 45 giri del fratello maggiore Giovanni, dove si pronunciava addirittura la parola “puttana”; era di un cantautore italiano sconosciuto: Fabrizio De Andrè .
Immagini:Zia Giorgia la ricordo avvolta dalla testa ai piedi nel suo scialle nero, con perfino gli occhi nascosti dalla penombra, uscire di casa per recarsi a messa o a far surbizza, le faccende; Quando ero al buio, o se chiudevo gli occhi, rimanevo incantato dall’apparizione di tanti segnetti e puntini colorati in movimento, una sorta di allucinazione che poteva durare anche parecchi secondi .
Se terminato l’elenco avrete letto qualcosa che vi riguarda, non stupitevi: durante la lettura de “Le verdi praterie” è successo più volte anche a me, nonostante l’avere una decina d’anni meno dell’autore (classe 1955) e l’esser nato e cresciuto a mille chilometri di distanza dal suo “spicchio di quartiere”, in un posto dove anch’io – come Gurrieri – ho avuto la fortuna di avere intorno a me “un piccolo grande universo ad animare la vita e accompagnare noi bambini nella crescita”, “un microcosmo di umanità dove ognuno sapeva cosa accadeva nella casa dell’altro, e gli scambi, il mutuo appoggio, avvenivano in ogni campo; solidarietà tra povera gente”.
Comunque, visto che a volte fa star bene ritrovare in altri qualcosa che ci riguarda da vicino, chissà che questo libro, alla fine, non lo si scopra anche terapeutico.

Marco Sommariva


il cast della serie
Il cast della serie. Al centro, Marco Giallini

È lunedì 7 novembre quando, sul sito di Repubblica, leggo Rocco Schiavone, il vicequestore anarchico, è Giallini; il titolo fa riferimento alla serie Rocco Schiavone, in onda da mercoledì 9 novembre su RaiDue.
Silvia Fumarola che firma il pezzo, scrive che il vicequestore della Polizia – l'eroe dei libri di Antonio Manzini editi da Sellerio – è Anarchico, intelligente...; nello stesso articolo le dà manforte il protagonista della fiction, Marco Giallini, che dice: “Schiavone è a suo modo un anarchico...”.
Da sempre osservo e ascolto molto volentieri tutto quel che ha a che fare con l'anarchia, e un'occasione così ghiotta, oltretutto servita a domicilio, metto in conto di non perderla; è anche vero che difficilmente si resiste alla rivoluzionaria novità di un antieroe che indaga, cinico, spesso sgradevole, con una sete di giustizia che non combacia con la legge, e che – come dice il regista Michele Soavi – “... è protagonista di un western. Un cowboy senza pistola più infernale di un bandito e giudice supremo delle ingiustizie umane.”

E così, mercoledì 9 – roso dall'invidia per non esser mai stato capace d'inventare per i miei romanzi di poca cosa un personaggio così alternativo come il vicequestore Schiavone, segno indiscutibile di una scrittura libera e obiettiva – mi accomodo davanti alla TV in attesa che inizi la fiction, certo che block notes nuovo e lapis accuratamente appuntito posati sul tavolino accanto a me, dovranno fare gli straordinari: chissà quante cose interessanti trascriverò... non vedo l'ora.
Mentre la pubblicità scorre via, mi frulla per la testa la mail ricevuta l'altrieri dalla casa editrice Sellerio, soprattutto il passaggio “Un vicequestore nato e cresciuto a Trastevere, che (...) viene trasferito ad Aosta. Rocco Schiavone ha combinato qualcosa di grosso per meritare un esilio come questo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. È violento (...) saccente, infedele, maleducato con le donne, cinico con tutto e chiunque (...)” e visto che la pubblicità continua, mi alzo, sfilo dalla libreria la mia vecchia copia sottolineata e piena di appunti de “L'anarchia. Il nostro programma” di Malatesta, la poso accanto al blocco e mi risiedo: e se il buon Errico avesse toppato?
Inizia la puntata.
Chissà quante cose interessanti trascriverò... non vedo l'ora.
Finisce la puntata.
Osservo block notes e punta della matita intonsi; dalla copertina del libro, noto che l'autore mi osserva con sguardo un filo stanco, ma benevolo e soddisfatto.
Mentre un nuovo carosello di pubblicità scorre via, mi frulla per la testa un'immagine: il vicequestore Schiavone colto da malore attivo che vola da una finestra del quarto piano della questura di Aosta; non ci fosse, potrebbe andar bene anche un piano più basso. Non vedo l'ora.

Marco Sommariva

Raccontami un po' chi sei e quale è stato il tuo percorso di scrittura, come sei arrivato a concepire e scrivere un libro come "Il Venditore di Pianeti", molto sperimentale. Conosco un po' la tua precedente produzione e nel tempo hai maturato delle scelte stilistiche e delle trasformazioni notevoli.

Sono un perito meccanico nato a Genova nel '63, che lavora nel settore metalmeccanico dall' '82. Inizio a scrivere nel settembre del '98, la stessa mattina che termino la lettura di "Diario di un killer sentimentale" di Sepulveda. Inizio con quello che diventerà - nell’ottobre del '99 - il mio esordio editoriale: "Il cristallo di quarzo", un breve romanzo edito dalla Sicilia Punto L ed. di Ragusa, la stessa casa editrice che manderà alle stampe "Vorompatra" nel 2003 e "Fischia il vento" nel 2005 - come dicevi tu, tutti romanzi distanti dalla sperimentazione de "Il Venditore di Pianeti". A questo tipo di scrittura ci arrivo dopo l'interesse suscitato da un mio racconto edito nel luglio del 2001, da una piccola casa editrice genovese, intitolato "Ho ucciso Capossela"; senza dubbio, anche la lettura nell'agosto del 2001 di due libri quali "Baol" di Stefano Benni e "Pulp" di Charles Bukowski rafforzano in me la convinzione che si può sperimentare - non è un caso se la prima stesura de "Il Venditore di Pianeti" avviene proprio tra il settembre e l'ottobre del 2001 (lo scrivo in quaranta giorni). Ritengo che lo stile utilizzato per la stesura di un romanzo come "Fischia il vento" non avrebbe mai funzionato per "Il Venditore di Pianeti", e viceversa. Sono convinto che lo stile sia... "solo" un mezzo per far giungere al lettore il messaggio.

E messaggi, "Il Venditore di Pianeti", ne trasmette sicuramente. Infatti, mi sembra di poter dire che la ricerca da parte dell’Io Narrante di questo misterioso personaggio, che dà il titolo al romanzo, non porta volutamente a clamorosi sviluppi di trama, ma è una sorta di pretesto per una serie di incontri con individui incredibili, paradossali, eppure a loro modo emblematici. Non li conosciamo con i loro veri nomi, perché tutta la vicenda ruota intorno all’Osteria dei Soprannomi, frequentata da persone che si spogliano della loro identità anagrafica per assumere quella fittizia cucita loro addosso dagli altri avventori. E così c’imbattiamo in Tom Valzer, così simile a Tom Waits, Carlo Tomaszewski, Bestia, e tanti, tanti altri con le loro incredibili storie. Ed è un viaggio in un’umanità marginale, fatto di dialoghi surreali, scanzonati, graffianti e commoventi al tempo stesso. Quale società hai ritratto attraverso questi personaggi? E che cosa hai voluto dire al lettore? C’è qualche personaggio che ti è più caro di altri?

Cominciamo col dire che la ricerca di questo misterioso Venditore di Pianeti è unicamente un pretesto, un trucco, un espediente, quello che Hitchcock definiva "Mac Guffin": una cosa non importante in se stessa, che fa venire il mal di testa ai logici che cercano in questa la verità. Come diceva Hitchcock, il "Mac Guffin" non è niente. Per quanto riguarda la società, ho cercato di ritrarre quella degli invisibili, degli sconfitti; l'ossatura della schiena piegata di questo mondo che regge il fardello dei pochi ricchi che ingrassano sempre più. Cos'ho voluto dire... l'ho detto: lo si legge, soprattutto, nelle parole di Tom Valzer e dell'Io Narrante. L'ho fatto in un modo un po' ruffiano, cercando di far sorridere, così da non far annoiare il lettore; e, in effetti, sono diversi quelli che mi hanno scritto per dirmi che hanno chiuso il libro col sorriso e il magone in gola. Mi è molto caro Tom Valzer, per la sua poesia, la sua schiettezza... ma anche Carlo Tomaszewki, per il suo amore andato a male, la sua voglia di giocare...

Per crearli, ti sei ispirato a persone reali. Tom Valzer assomiglia maledettamente a Tom Waits, ad esempio. E Tomaszewki sembra proprio parente del portiere della Nazionale polacca degli anni ’70. Poi ce ne sono molti altri, magari meno famosi. Come mai hai scelto proprio loro? Che cosa rappresentano per te?

Tom Valzer è il duro che non ha perso la tenerezza, Carlo Tomaszewski è l’adulto ostaggio dell’adolescenza - età in cui ogni amore sembra eterno; in cui si gioca ancora, ma non si è più bambini. Sicuramente, entrambi miei alter ego. Un po’ quello che sono stato, un po’ quello che sono, un po’ quello che vorrei essere o tornare ad essere.

Un altro grande protagonista è l’Osteria dei Soprannomi. Si direbbe che sia quasi un’Isola che non c’è post industriale… Ti sei ispirato a un luogo realmente esistente?

L’Osteria dei Soprannomi esisteva, anche se aveva un altro nome; e si trovava di fronte a quelle che, una volta, erano le prigioni di Sestri Ponente - così come ho scritto nel romanzo. Era un’osteria talmente buia e sporca che, anche nei pomeriggi più afosi, preferivi non entrarci e tenerti la sete. Credo l’abbia fatta chiudere l’Igiene qualche anno fa; adesso c’è un bar come tanti altri, lindo e luminoso, ma molto meno affascinante.

Anche la città, Sestri Ponente, una città operaia della periferia genovese (anche se i sestresi doc reputano Genova una periferia di Sestri), rappresenta uno sfondo di notevole importanza. Soprattutto per come viene trasfigurata, reinventata quasi dalla tua fantasia. Diventa così un luogo dell’anima, nel quale si colgono atmosfere e dettagli che, alla fine, sono tipici di questa cittadina, ma ci parlano anche di tutte le nostre città e delle loro contraddizioni. Che cosa rappresenta Sestri per te? Come è stato, per te, metterla in scena nel tuo libro?

Nonostante abbia visto tanti posti sia in Italia che all’estero - e, alcuni, molto più belli di Sestri - non ho mai pensato "qui ci verrei a vivere". A Sestri Ponente ci sono nato e cresciuto, e ci ho sempre abitato: non saprei farne a meno. A Sestri ho troppi ricordi, sparsi agli angoli delle strade, nel dialetto della gente, negli sguardi dei vecchi amici, nei discorsi di chi "mugugna" e non ci sta, negli odori dei vicoli e dei portoni. Mettere in scena Sestri, è stato quasi doveroso: nessun altro teatro si sarebbe prestato così bene alle vicende dei miei personaggi.

Nella domanda precedente ho parlato di messa in scena e non è stato un caso. L’elemento che caratterizza il tuo libro sono i dialoghi: fulminanti, surreali, ironici e, soprattutto, molto coinvolgenti. Sembra quasi di leggere una pièce teatrale, a tratti. Come mai questa scelta? Che tipo di lavoro presuppone questo tipo di scrittura?

Dell’impressione di leggere una pièce teatrale, ricordo che me ne parlò già la persona che lesse per prima la stesura originale de "Il Venditore di Pianeti" e, in seguito, la stessa cosa mi è stata confidata da più persone. In realtà, quando l’ho scritto non pensavo al teatro, ma a divertirmi. A quanto mi è stato riferito da gente dell’ambiente pare che, al giorno d’oggi, sia difficile trovare in Italia autori di teatro che usino dialoghi fulminanti, ironici e allo stesso tempo coinvolgenti - bada bene, ho usato parole tue. Certo sarebbe bello vederlo rappresentato sul palcoscenico come, del resto, non sarebbe male vederlo trasformato in fumetto o film. La scelta dei dialoghi non è stata una scelta: sono stati i personaggi a cominciare a parlare così, e io li ho lasciati fare - mi pareva non perdessero tempo in fronzoli (qualità che apprezzo tantissimo) e, allo stesso tempo, s’intendessero alla grande. I dialoghi li scrivo così come mi vengono, di getto. Se la sera dopo, quando li rileggo, funzionano - nel senso che hanno il ritmo che desideravo - non li tocco più, se no limo qui e là. Persino le tanto bistrattate parolacce sono messe lì dove possono dare cadenza, armonia, musicalità. In effetti, come dici tu, i dialoghi hanno caratterizzato il mio libro; credo sia anche conseguenza del fatto che m’irritano le descrizioni dettagliate - proprio come a Hitchcock.

E’ stato appena pubblicato per Tropea il tuo romanzo “Il venditore di pianeti”. Ti va di raccontarmi la storia di questo libro? Com’è nata l’idea, quando hai iniziato a lavorarci…

La storia di questo libro nasce nell’agosto 2001; sto passeggiando in Versilia con un amico, fra centinaia di bancarelle, quando mi fermo a scambiare due parole con un uomo che prova a sbarcare il lunario vendendo riproduzioni in polistirolo di pianeti – un tipo brillante, interessante. Quando ci allontaniamo da lui, l’amico mi sfida: “Voglio proprio vedere come inserirai uno così in un tuo romanzo”. Raccolgo la sfida, ci penso un po’ su e, in 40 giorni, scrivo “Il Venditore di Pianeti”.

Che effetto ti ha fatto vederlo pubblicato?

Mi ha stupito. Non immaginavo che un tipo di scrittura così poco usuale potesse venir preso in considerazione da una casa editrice come la Marco Tropea e, soprattutto, che andasse in stampa dopo un editing che rispettasse così tanto l’originale.

Il tuo romanzo poggia essenzialmente su due cardini, entrambi molto complessi da sviluppare. Il primo sono i personaggi, che proponi come un variopinto catalogo di umanità. Come hai creato e messo in piedi i tuoi personaggi?

Il primo è stato Tom Valzer, una sfacciata controfigura di Tom Waits; non a caso molte sue frasi non sono altro che estratti dei testi delle sue canzoni. Il secondo è stato Carlo Tomaszewski, un incrocio tra il portiere della nazionale polacca dei primi anni ’70 e lo scrittore Charles Bukowski; in questo caso diverse sue frasi sono estratti dei suoi romanzi. Gommolo e Briomasso sono stati ispirati da due miei cari amici, Olga da una collega. Era un periodo così: la sera mi mettevo alla tastiera del computer e, poco dopo, venivo circondato da un’accolita di emarginati, tutti desiderosi di raccontare la loro storia.

Il secondo cardine è rappresentato dai dialoghi, altra sfida sempre difficile per un narratore. I tuoi sono tanti e tutti impostati come un ping-pong, con botte e risposte che si susseguono dando vita a sequenze molto coinvolgenti. Che tipo di lavoro ti hanno richiesto?

Li scrivo così come mi vengono, di getto. Se la sera dopo, quando li rileggo, funzionano – nel senso che hanno il ritmo che volevo – non li tocco più, se no limo qui e là. Credo che mi vengano di getto anche perché c’è qualcosa di me in tutti i personaggi del romanzo, anche nei più cattivi e in quelli femminili.

Questi due cardini, i personaggi e i dialoghi, fanno del tuo romanzo un romanzo di storie, potremmo anche parlare di un romanzo corale, ma quel che più conta è che si tratta di un romanzo di voci. Ciascuna con un vissuto, con un proprio mondo…

Ognuno di noi ha un vissuto, un proprio mondo da raccontare; io mi fermo spesso ad ascoltare questi mondi raccontati, questi vissuti. Per “Il Venditore di Pianeti” ho scelto quelli più strani, più buffi, più strazianti, più poetici. E, quando non lo erano abbastanza, sono intervenuto con la fantasia.

I tuoi personaggi si ritrovano e s’incontrano all’Osteria dei Soprannomi, dove ognuno – appunto – ha un soprannome. Ma scendendo più a fondo, riflettendo sul tuo libro da una prospettiva allegorica, direi che il mondo che hai raccontato riflette una società ideale, dove tutti si rifanno a delle regole fondamentali tacitamente accettate, ma dove tutti sono accettati per quello che sono, bizzarrie e fisime comprese. Dico male?

Dici benissimo. Questa comunità d’individui, che vive fuori dalle regole del resto del mondo, aveva bisogno d’un posto dove incontrarsi. Credo che l’Osteria dei Soprannomi sia quella che Hakim Bey definiva T.A.Z. – Zona Temporaneamente Autonoma – un’isola di territorio liberato dalle logiche di dominio economico e mentale del capitalismo, un rifugio per sfuggire ai condizionamenti dell’Impero delle Merci. Più che un posto dove fuggire, un’alternativa all’interno del territorio nemico, che spiazza il nemico stesso. In effetti, come dici tu, nell’Osteria si trovano almeno un paio di comportamenti su cui, a parer mio, una società ideale dovrebbe basarsi: accettarsi invece che tollerarsi e condividere liberamente regole non imposte.

Poi c’è la città vera e propria, quella dove sorge l’Osteria dei Soprannomi. Parliamo un po’ di questo punto…

La città è Sestri Ponente, dove sono nato e cresciuto, ma non è un atto d’accusa verso la mia città. E’, però, un atto d’accusa verso la Città, fabbrica d’apatia, indifferenza, odio e intolleranza, capace solo di farci sentire sempre più soli.

Se dovessi scegliere una colonna sonora per “Il venditore di pianeti”, quali musiche preferiresti?

Non ho dubbi: quelle di Tom Waits.

E se dovessi trarne un film, quali attori, anche se scomparsi, sceglieresti?

Eduardo De Filippo, il Giancarlo Giannini di “Mi manda Picone”, Klaus Kinski, Anna Magnani, Totò e, scusa se mi ripeto, Tom Waits. Infine, anche se non so se ha mai recitato, sceglierei Patti Smith.

Vorrei soffermarmi sulla tua scrittura. Il primo dato che se ne rileva, e che si apprezza, è la sua scorrevolezza. Si tratta di un effetto spontaneo o del risultato di un lavoro di lima?

Come ti dicevo prima, c’è molta spontaneità, forse troppa; la lima la uso soltanto quando, fatto decantare per almeno un giorno, mi rendo conto che il dialogo non ha il ritmo che desideravo – persino le tanto bistrattate parolacce sono messe lì dove possono dare cadenza, armonia, musicalità.

La critica che risposte sta dando a “Il venditore di pianeti”?

Ottime. Pare che non sia per nulla facile, per l’opera d’esordio d’uno scrittore italiano, leggere contemporaneamente apprezzamenti su quotidiani e riviste del calibro del Corriere della Sera, Rolling Stone e Pulp.

Ultima domanda: cos’è che non vorresti mai sentir dire su questo tuo libro? E poi: cosa, fra le tante che avrai ascoltato sinora, ritieni ancora non sia stato detto?

Non vorrei sentir dire che denigra la figura femminile o che è volgare. In merito alla seconda domanda, direi che forse non è stata ancora colta tutta la poesia che accompagna dialoghi, descrizioni e personaggi del romanzo.

L'uomo di Porto Alegre
In queste pagine che analizzano le origini e i programmi del nuovo governo di Lula, il vero protagonista è Tarso Fernando Genro, attuale ministro brasiliano dell'Educazione, famoso in Italia per essere stato sindaco di Porto Alegre negli anni dei primi Forum sociali mondiali svoltisi in Brasile. La torinese Bruna Peyrot, studiosa di storia sociale, concentra la sua attenzione sulla biografia di Tarso, dirigente del Partido dos Trabalhadores (Pt) e instancabile teorico, impegnato a formulare un modello di società capace d'unire in un contesto sudamericano la tradizione marxista a quella liberale dei diritti civili. Lo fa senza esaltare solo le vicende individuali, ma cercando di scoprire – al loro interno – lo spirito di un'epoca e quello di un Paese capace di rifiutare i diktat nordamericani, che vuole essere d'esempio per l'America Latina e interlocutore attento dell'Europa. Episodi e figure che hanno fatto la storia del Brasile e quella del Novecento, dilatano la biografia di un uomo a ritratto di gruppo, generazione, popolo.
Tarso, poeta e scrittore, passa dalla politica alla letteratura seguendo gli stessi valori: «Le grandi opere di finzione – scrive – testimoniano l'autoconoscenza dell'infinita giornata dell'uomo, come conseguenza di tragedie e speranze. L'uomo pertanto si contempla essere storico e il lettore sente che la giornata dell'umanità è anche la sua giornata». Tarso ammira Victor Serge, critica il socialismo reale, ma ha un profondo legame con la storia del Novecento e con le speranze sospese del '17. Nella politica, però, cerca anche i sentimenti, non solo “chiavi di lettura economiche”. Per Genro – anno di nascita 1947, lo stesso in cui il Partito comunista brasiliano viene cacciato nell'illegalità – la letteratura integra la politica. Ama Calvino e Sciascia, poi Pavese, di-cui lo affascina la tormentata relazione con la politica. Il li­bro della Peyrot – ricercatrice vicina al pensiero della differenza sessuale – instaura col personaggio anche una relazio­ne empatica, che accompagna l'intero rac­conto.
Il libro descrive la terra natia di Genro – Rio Grande do Sul – come la più euro­pea di tutta l'America Latina, anticipatrice delle tendenze politiche del Brasile, teatro di eventi che lì hanno trovato terreno fertile fin dalla prima colonizzazione: i domini spagnoli la contendevano ai portoghe­si. Terra che vanta una tradizione di ribellismo – l'esule Garibaldi si unì alla rivo­luzione dei farrapos (straccioni) – dove si sono formate, con maggior consapevolezza che in altre regioni brasiliane, idee di federalismo, autonomia e nazione.
Peyrot parla del dilemma che in passato ha tormentato Lula e Genro (involuzio­ne o riforma democratica?) e spiega come la Pirelli abbia scommesso su Lula: sostenendo i piani del governo di lotta all'analfabetismo e per lo sviluppo profes­sionale, comprando la gomma naturale dai seringueiros – i raccoglitori di cauc­ciù dei quali era leader Chico Mendes – e producendo pneumatici dentro un si­stema ecocompatibile (per esempio: un sistema di acque reflue che permette di recupe­rare il 95% di acqua per il consumo industriale e domestico).
Ma l'autrice non assume né analizza le critiche mosse al governo Lula dalla sua sinistra (di cui fa parte il teologo della liberazione Frei Betto, che nel governo coordina il programma Fame Zero), e sorvola sul merito delle «attese di molti che vogliono subito quel cambiamento atteso e annunciato da secoli da persona­lità e movimenti più disparati». Le interessa di più il «lavoro intersoggettivo delle memorie», capace di creare spazi di resistenza democratica e di predisporli al futuro; perciò, cerca di far comprendere a fondo il Genro di oggi legandolo a quello di ieri che, costretto all'esilio durante la dittatura militare, si convince alla non-violenza durante un incontro clandestino con Lula nel 1974. In questo volume, Peyrot mostra come Lula persegua ancora i suoi ideali di giustizia sociale che riscattino davvero i poveri del Brasile, quanto sia testardo nel voler raggiungere le proprie mete e fiero dei venticinque anni passati a fare il negoziatore. In ultima analisi – scrive Peyrot – la memoria della democrazia è un «grande progetto di sviluppo e difesa di una tradizione di solidarietà e riformismo» che, a partire dal Brasile, serve a «fare animo» all'impegno dell'oggi.

MARCO SOMMARIVA

Oscurità e qualcosa che m’insegue. Rane meccaniche? Devo scappare. Comincio a correre. Nel buio. Un porto e una barca nella notte. Nella cabina un uomo cerca di sintonizzare una radio. Gli chiedo aiuto. Questo si gira e mi sbraita addosso la sua canottiera unta. Poi mi manda a fanculo. Sento sbraitare sirene. Se sono quelle col lampeggiante blu che vadano a fanculo! Corro nell’oscurità e m’inciampo in un vecchio. Il vecchio suona un mandolino mentre Questo è uscito dalla barca. Intorno a lui rane meccaniche gli sbraitano addosso le nebbie del porto. Il vecchio mi dice di ascoltare. Il mandolino parla d’amore. Di lunghe strade dritte nel deserto. Di baci rettilinei. Di uomini e donne nelle curve. Un buon viaggio. Ma adesso basta. C’è qualcosa che m’insegue. E scappo dal vecchio. Cazzo m’insegue? Pendoli. Pendoli che marciano. Che cercano di sintonizzarsi sui miei passi. Il mare è già in onda. Da qualche parte sbuca un negro che trasmette pensieri reggae. Lui pensa in levare. Io me la batto. Mi faccio male e mi perdo. Un bambino mi indica la strada ma io non vedo nulla. Mi prendi per il culo? Mi prende a calci nel culo e mi sbatte in mezzo a una strada. Poi rutta fortissimo. Mi spavento e scappo col mare che mi gocciola a fianco. Lacrime d’amore. Finalmente le rivedo. Ne sentivo la mancanza. Rivedo lei sbucare tra la nebbia. Ha il sorriso di vent’anni fa. Perché non mi fermo? Cazzo ne so. Fuggo ancora. Al ritmo di un carillon. E m’inciampo nel poncho. Ma come cazzo sono vestito? Tolgo il poncho e lo appendo al letto. Sul letto senza materasso un ubriaco fuma l’ultima bottiglia. Accanto a lui un martello e pezzi di vetro. Salto il letto. Spicco il volo nel fumo e do una facciata contro un’arpa. Sotto di me una fabbrica. Uomini e donne curvi e grigi tutti in riga. Dio delle rane meccaniche non farmi precipitare! Tutti uomini grigi. A parte il negro. Atterro dall’altra parte del letto. L’ubriaco alza un dito medio e scoreggia. Io riprendo a correre. Ma all’indietro. L’ubriaco mi lancia il martello. Lo prendo al volo ed entro in un circo. Luci gialle accese sulla pista vuota. Un faro si spegne. Un grammofono si accende. Polvere che suona e passi che friggono. Qualcuno s’avvicina. Sento puzza di canottiera unta. E’ Questo. Mi precipito giù dalle scale. Davanti a me un tunnel di tela. In fondo al tunnel il vecchio che tossisce. Ha tuba frac e un coltello. E il mandolino? Tossisce e ride. Mi viene incontro. Mi attraversa. E’ solo un’ombra. Il vecchio è fuori che accoltella un pianoforte scordato. Devo ricordarmi di ringraziarlo. Per il viaggio di prima. Il vecchio urla come un ossesso. Di certo è fuori. Cancelli che si chiudono. Porte che si aprono. Cornamuse che entrano. Io esco dal circo. E fuori ancora il porto. Gru. E una nave che ulula. La nebbia inghiotte tutto poi rigurgita qualcosa. Rane meccaniche? Il negro rigurgita i suoi amori persi. Poi prova a baciarmi. Ma non voglio. Belin! gli puzza l’alito. Però balliamo un lento lunghissimo. Persino la luna ci spia. Ma non vede un cazzo. E allora piscia nella nebbia. Bagna l’ubriaco che s’incazza e alla fine ci vede. Sul molo 65 sbarca un esorcista. Al guinzaglio un pitbull. E quello stronzo di Questo. Il negro azzanna il pitbull. Io acchiappo Questo da dietro. L’esorcista acchiappa me e mi sodomizza. Non credo sia amore. Una chitarra elettrica prova a stuprarmi le orecchie. Io ci sto e godo come un pazzo. Laggiù in fondo i pendoli. Tutti in fila. Vengono verso di me. Sono davanti a me. Sopra di me l’arpa fa il verso al carillon. Poi la luna comincia a fischiettare una melodia e tutto si ferma. Quasi tutto si ferma. L’esorcista no lui continua a pompare. L’ubriaco piange e s’innamora della radio mal sintonizzata. Dalla radio sbuca un rullante. Il negro molla il pitbull riempie il rullante d'erba e se lo fuma. L’esorcista mi molla e sbriciola caccole col negro. Io corro via mentre la notte m’abbaia dietro. Il mare mi riconosce e riflette il saluto della luna. La nebbia mi corre al fianco. E pure sotto. Corro nella nebbia. I piedi annaspano. Le mani anche. Mi do da fare in questa schiuma grigia. Uomini grigi datevi da fare. Ci sono treni ovunque. Saliteci sopra o fateli deragliare. Corro ancora nella schiuma. All’orizzonte un’isola. Corro verso l’isola mentre sento il carillon. Sento pure male. Bastardo d’un esorcista! Mi piacerebbe correre in compagnia. Magari di una donna. Ma niente. Solo il ricordo quando va bene. E così corro solo. Ma che fatica. E’ tutta salita. Chi cazzo ha messo l’isola lassù in cima? Sarà stato l’esorcista. O quell’altra merda di Questo. E se l’isola fosse deserta? Sarà mica meglio correre tra il fumo delle fabbriche? Tra i cervelli andati in fumo? Mi fermo. Intorno a me silenzio. Oscurità. Oscurità silenzio e nulla che m’insegue. Dietro me una porta si chiude. Piano. Distante. Sono fermo. Immobile. Intorno silenzio e oscurità. Cazzo correvo a fare?

Cammino su una corda tesa. Tesa sopra un cortile. Sotto il sole. Nel sereno. Fra i panni stesi. E’ mattina? Ha importanza? Una persiana si apre. Cazzo fai lì sopra? Aspettavo un coglione che me lo domandasse. E tu? Faccio domande. Quando non devo rispondere agli imbecilli. Il coglione prende la corda in mano e la scrolla. Cazzo fai? Piantala che cado! Suona un cellulare. Entra. Meno male. Ora la corda scrolla meno. Tramonta il sole. Nel cortile canta una prostituta. Ha le cosce grosse ma ben fatte. Nel buio intona il suo richiamo. Nell’occhio di bue di un lampione. Luce improvvisa. Di nuovo mattina. O pomeriggio? Comunque chiaro. Uccellini intorno a me. Poi sulla corda. Non stanno fermi un attimo. Sono migliaia. Adesso fanno la ola. Cazzo fate? Piantatela che cado! Buio improvviso. Di nuovo sera. O notte? Comunque buio. Di nuovo la prostituta che canta. Seduta sul marciapiede. Gambe larghe. Anche la gonna che indossa è larga. E con uno spacco profondo. Scendi dai. Non faremo sesso. Faremo l’amore. Scendi dai. Non sei un acrobata. S’affaccia il coglione che fa domande. E no che non è un acrobata. E’ un imbecille. Come mai non fai domande? E cosa dovrei chiederti? Ecco. Ora ti riconosco. Non hai soldi per andare a puttane? Vuoi qualche spicciolo? Adesso non esagerare e rientra. E fatti i cazzi tuoi. Risuona un cellulare. Rientra. Nuovamente chiaro. Da qualche parte un treno a vapore. O almeno credo. Il vapore laggiù lo vedo. E’ una caffettiera. Che caffè sarà? Del mattino o del dopopranzo? Ha importanza? Profumi di caffè. E di ferrovia. Odore di viaggi da macinare. Nuovamente buio. Comincia a piovere. E io ancora su ‘sta corda tesa. La prostituta ha l’ombrello e suona il flauto con una mano. Sento il serpente che mi si rizza. Smette e m’implora di scendere. Sicuramente ha notato il serpente. Ora grandina. Sento il rumore sulle tegole. E sul cranio. Grandina forte. Fa male. Ora più piano. Però fa male lo stesso. Chiaro! S’affaccia di nuovo il coglione che fa domande. Vuoi scendere o no? Devo chiamare la polizia? Sento una sirena. Vedo avvicinarsi un cretino che urla. Ha un imbuto in bocca. Scendi immediatamente! Anzi no prima mostrami i documenti. Lentamente decollo avvitandomi su me stesso. Salgo oltre i tetti e guardo in basso. Smette di grandinare. Piove piano. Faccio il gesto dell’ombrello al cretino. Buio! Ridiscendo con calma sulla corda e ascolto l’oscurità. Quanto dolore. Bimbi che sognano i nostri babau. Donne che fuggono dai mariti. Mariti che fuggono nei cessi. Padri che fuggono nei letti delle figlie. Possibile? Madri che piangono la vita. Campanili che scandiscono l’arrivo della fine. Quanto piacere. Bimbi che sognano di rincorrere i nostri babau. Donne amate da un altro uomo. Mariti che escono dai cessi. Padri che parlano alle figlie di un mondo diverso. Possibile! Madri che abbracciano la vita. Bimbi che sognano di pisciare sui campanili. Bimbi che sognano d’aver raggiunto e coperto di sputi i nostri babau. Peccato suoni di nuovo il cellulare di quel coglione. Ti da fastidio il mio cellulare? Ho chiesto forse a te di rispondere? Niente da fare. Non riesce a non far domande. Continua il dolore. Continua il piacere. A quel piano lì il piacere. Il piano sopra il dolore. Il piano sotto anche. La prostituta si lamenta. Credo finga un malore. Speriamo torni presto il chiaro. Sparirebbero la prostituta e il suo lamento. Uno scoppio. Un’esplosione nella casa del coglione. Vibra tutto. Anche la corda. Cazzo combini in quella casa? Se non la pianti cado! Viene alla finestra col viso sfigurato. Mi è esploso il cellulare in faccia? E me lo domandi?! Potrei fare diversamente? Hai ragione. Pensi che morirò? Speriamo. Sai di essere un grandissimo stronzo? Oltre ad essere un imbecille. Ovviamente. Allunga una mano per afferrare la corda ma s’accascia sul parapetto. Le braccia fuori che penzolano. Il cretino con l’imbuto gli urla di tornare dentro. Torni in casa! Potrebbe essere pericoloso. Torni in casa immediatamente. Ha capito? Si muova! Torni dentro o sparo. Spara. Dovranno fargli due funerali. Uno glielo fa la prostituta. Suona il piano e canta una nenia. Gran bel funerale per un coglione. Vorrei scendere per farle i complimenti. Ma non so come fare. Luce! Tornano gli uccellini. Migliaia di uccellini. Mi sollevano e mi adagiano nel cortile. La prostituta è ancora lì. E’ un travestito. Col trucco degli occhi sciolto sulle guance. E le calze a rete. Glielo dico. Hai dedicato a quel coglione una bellissima nenia. Complimenti mamma. Mi sussurra grazie nell’orecchio e mi si rizza di nuovo. Torno a casa con lei. A braccetto. Lei zoppica e stringe a sé il suo bambino. Io penso a come sarà bello toccarla sull’ascensore. Intanto gli uccellini cinguettano felici. Migliaia di uccellini cantano sotto il sole. Sopra un cortile. Nel sereno. Fra i panni stesi. Migliaia di uccellini cinguettano al sole. E cagano felici sul coglione che non farà mai più domande. Ha importanza?

Un’auto lanciata nell’estate. Su un rettilineo. Coi finestrini aperti. E un mangianastri acceso. Un’auto piena di amici. Col vento nei capelli. E basette meravigliose. Ragazzi scalzi. Coi jeans consumati. Scampanati. A torso nudo. E a bagno nell’aria. E io nel mezzo. Non parliamo. Ma ridiamo. Perché? Cazzo ne so. Forse perché ci siamo. Stesso rettilineo. E stessa auto. Più lanciata di prima però. Più vento nei capelli. E basette spettinate. Ragazzi coi piedi dai finestrini. Coi jeans sbottonati. A zampa d’elefante. Coi capezzoli turgidi. E zuppi d’aria. E io sempre nel mezzo. Sull’auto danziamo. Con una bottiglia in mano. Balliamo la nostra danza. Dei capelli lunghi. Delle barbe lunghe. Del si sta bene così. In piedi sui sedili. Di una decappottabile. Un piede in aria. Ginocchio a prendere il tempo. Le braccia in alto. Equilibrio precario. Danziamo a chi cade prima. Non cadiamo neanche morti. Danziamo fino a sera. Con camice sottili. Jeans sudati. Piedi sporchi. E due bottiglie nelle mani. Balliamo la nostra danza. Di capelli e barbe molto lunghe. Che s’attorcigliano fra loro. E con quelle di chi ci sta accanto. Si sta bene attorcigliati cogli amici. Balliamo la nostra danza. Seduti sul tetto. Piedi che penzolano nella musica. Mani che tengono il ritmo. E anche al collo non scappa una volta. Viaggio indimenticabile. Fai che non finisca mai. Hai capito Testadicazzo? Ovunque tu sia. Fai che non finisca mai. A volte rallentiamo. Ogni tanto decidiamo di fermarci. Ma è solo per innamorarci. L’unica cosa che prendiamo in considerazione. A patto che poi si riparta. Tutti assieme. Sull’auto di prima. A noi piace innamorarci. Ci fosse qualcuno disposto a farsi innamorare. Peccato che la strada sia sempre deserta. Sono ovunque. A farsi belli. A riempire i congelatori. Meno che qua. Sul rettilineo. Peccato. Qua si ascoltano libri. Si camminano serate fresche. Ma loro niente. Perché? Perché non vengono sul rettilineo? Qua ci sono auto che passano. Piene di ragazzi. Che si vestono di pioggia. E che sorridono. Ragazzi che guardano fuori. E che scenderebbero. Ci fosse qualcuno disposto a farsi amare. Ma nessuno ne vuole sapere niente. Li trovi in vacanza all’estero. In coda alla cassa. Meno che sul rettilineo. Avranno paura. Avete paura? Ma di cosa? Sul rettilineo vi rilasserete. Vi disintossicherete. Basterà chiedere un passaggio a una delle auto che passano. Piene di ragazzi. Che danzano la musica della vita. Che bevono risate. E guardano lontano. Ragazzi che accarezzano il vento. Che baciano armoniche. E che farebbero l’amore. Ci fosse qualcuno col pollice teso. Da caricare. E invece nulla. Un pianeta popolato da monchi. Che raccolgono punti. Che si aggiustano la cravatta. Monchi di un mucchio di cose. Tronchi. Solo legna da ardere. Poi qualcuno di noi perde la pazienza. E svolta al primo incrocio. Poi dice chiudi il tetto. E chiudi pure i finestrini. E butta via ‘ste cazzo di bottiglie. Non vedi che il sole è tramontato? E succede che qualcuno di noi gli dà retta. E così finiamo tutti col guardare fuori. Ognuno in direzioni diverse. Cazzo guardiamo? Nulla. Però pensiamo. Pensiamo che è finita. Solo perché uno di noi non ce l’ha più fatta. E ha già un figlio. E un altro di noi lo vogliono sposare. Pensiamo che sta andando tutto a puttane. Persino il mangianastri adesso è guasto. Ma sentite che cazzo di caldo fa? No. Ma come no? Apri un finestrino dai. Ho detto no! Tanto ormai è notte. Ma io non respiro. Ed è pure buio. Non vedo orizzonti. Vedo solo quattro mura. E una cretina che strilla. Soffoco. Fermate l’auto. Non ci sto più in questo mezzo. Non mi respira il cervello. Fermate ‘sto cesso! Sto affogando nella merda. Vi ho detto di fermarla. Stronzi traditori! Niente? Allora apro non so che. E mi lancio fuori. Nel vuoto. Precipito per un po’. Poi volo. Porca troia! Lo sapevo che era possibile. Eccomi qua. Con la cloche in mano. Piloto un gabbiano sereno. Dentro una sfera di cristallo. Intorno a me puledri che ridono come pazzi. Criniere al vento che pettinano le nuvole. E’ così! Ci si aggiusta da soli. Non occorre nessuna Testadicazzo. Guardo fuori. Dall’alto. La macchina adesso è ferma. Gli amici sono scesi. Per un po’ mi cercano. Poi prendono strade diverse. La macchina la lasciano lì. In mezzo alla strada. In mezzo al rettilineo. Con le portiere aperte. Qualcuno la salirà? La guiderà? La danzerà? La riderà? Me lo auguro. E che nessun altro l’abbandoni un po’ più avanti. In attesa di altri. Che scenderanno. E che non si chiederanno il perché. Solo perché è fatica rispondersi. Eppure basterebbe poco. Basterebbe non svoltare. Oppure buttarsi fuori prima. Io l’ho fatto. E ora sto bene. Con le farfalle nei capelli. L’armonica in bocca. E scalzo nel vento. Continuo il mio volo. Su questo rettilineo di cielo. Pieno zeppo d’autostoppisti.

A Sestri Ponente ci sono nato, e non è un modo di dire. Mia madre mi ha partorito in casa, nella stanza dove adesso c’è la sala col televisore. A darle una mano c’erano l’ostetrica e mia zia Lina. Il mio primo urlo lo hanno sentito gli orti del Priano, quelli che in aprile pullulano di ottime fave.
A Sestri ci sono le mie radici e ve lo conferma una “ciappa” d’ardesia di via Biancheri: “U maina” era mio bisnonno.
Sono nato nel ’63 ma, a Sestri, nel ’50 già si pensava a me. Ci pensavano due ragazzi innamorati che ballavano all’Unione Sportiva, in viale Canepa. Il ragazzo abitava in via Vigna ed era cresciuto in piazza dei Micone, la “galante” viveva in piazza Maroncelli dal ’42, anno in cui dovette abbandonare l’appartamento di Quezzi lesionato dai bombardamenti. Si promisero eterno amore – come nei romanzi di poca cosa – e furono di parola: ancora oggi discutono quotidianamente.
A Sestri ci ho fatto a cazzotti. Quelli che abitavano dall’altra parte della chiesa, oggi carissimi amici, all’epoca erano insopportabili.
Sestri è la gita domenicale all’aeroporto Cristoforo Colombo di quando ero bambino, è il cinema Vittoria della prima volta che sono uscito senza genitori, è il primo bacio a labbra chiuse, le “vasche” in via Sestri e il primo amore.
Sestri è la prima partita di pallone che ricordo: scapoli contro ammogliati sul campo di via Chiaravagna; uno zio perse, uno vinse.
Sestri è la Resistenza di mio zio Beppe e del “suo” cantiere navale.
Sestri è la prima volta che ho visto gli acrobati; il circo Herasio portò le sue magie nell’area dell’ex corderia.
Sestri è la partita sul campo di Borzoli che s’allarga e s’allunga col passare degli anni; i miei, ovviamente.
Sestri è la Villa Rossi dove porto mio figlio a giocare.
Sestri è il mare visto dal Gazzo.
Sestri è così Sestri che, mentre i genovesi vanno in centro, noi “andiamo a Genova”.
Marco Sommariva