“Le verdi praterie” parla di qualcosa di cui ormai si è quasi del tutto persa la memoria; mi riferisco a persone e fatti che hanno animato soprattutto gli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche quelli arrivati sulla loro scia. Le pagine di questo libro sconfiggono le leggi del tempo, dimostrano che possono trascorrere secoli nell’arco di pochi decenni. Nella manciata di lustri che ci separa dal periodo che fu definito “boom economico” e dalle speranze che animarono subito dopo generazioni di giovani e non, alcune cose sono morte (metodicamente uccise) e così ben sepolte da non ricordarcene più; stagioni in cui in Italia ci si occupava davvero di politica, con la gente che si appassionava realmente ai problemi del Paese – quindi, di tutti – persone con difficoltà ad arrivare a fine mese ma arricchite da idee da difendere e diffondere, e pazienza se il troppo ardore dava vita a manifesti di propaganda che arrivavano a rivolgersi agli elettori (in questo caso comunisti) con avvertimenti del tipo “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no.” È salutare farsi accompagnare dall’autore a prendere una boccata d’aria in quegli anni: un po’ di ossigeno ci aiuterà a sopravvivere sotto l’attuale cappa (sempre più spessa) di rimbecillimento partitico-religioso.
Negli scorci di vita quotidiana raccontati da Gurrieri, ritroviamo le contrapposizioni di quel fare politica appassionatamente:
Il giorno che feci la prima comunione e la cresima, dopo aver frequentato assiduamente il catechismo e i corsi preparatori, a papà non passò nemmeno per l’anticamera del cervello di venire in chiesa, e se ne andò in piazza a vendere “L’Unità”; io, mamma, col mio amico Angelo, ci recammo da soli alla cerimonia che doveva sancire la mia iniziazione alla vita nella Chiesa di Cristo; fra le tante altre cose, in questi scorci riviviamo anche le balbettanti educazioni cattoliche classiche di quegli anni, faticose da intendere, capaci solo di deludere:
Una mattina presto verso il Sessantaquattro; era ancora buio, e suonarono alla porta; sentii vagamente nel sonno disturbato la concitazione dei momenti straordinari, e subito dopo il calare del silenzio. Capii che doveva essere accaduto qualcosa che aveva a che fare con nonna Nunziata; forse era morta. Per scongiurare questa evenienza, scesi dal letto, mi misi in ginocchio e recitai una infinità di “avemariapienadigraziepregapernoipeccatorieccetera”, e anche “padrenostrocheseineicielisiasantificatoiltuonomeeccetera”; erano parole imparate a memoria senza coscienza del loro significato, replicate a pappagallo, ma che mi avevano detto possedessero un potere enorme capace di far intercedere Dio nelle cose terrene ad esaudimento dei nostri desideri. Quando mi vennero ad avvisare che la nonna era morta davvero, capii che non servivano a nulla.
In queste verdi praterie incontriamo personaggi che sembrano tagliati con l’accetta come il Peppone e il Don Camillo del Guareschi, ma non c’è da stupirsi, all’epoca si era davvero così: rudi, incapaci di raffinate disquisizioni teoriche, ma immediati, genuini – sia da una parte che dall’altra, come si diceva all’ora. Immediatezza, genuinità e passione che, oggi, troppo raramente ritroviamo in chi frequenta un Partito (non importa quale, neanche se mascherato da Movimento) e una Chiesa (non importa quale, neanche se mascherata dall’ennesimo Papa-Buono):
Per noi di famiglia comunista, il partito era più che un’organizzazione politica; era relazioni, comunità, amicizie, lavoro, passione, scuola, chiesa, passato, presente e futuro. Non era pensabile un frammento di vita cui il partito fosse assente. Ai matrimoni e ai battesimi, alle feste consacrate e a quelle sconsacrate, nel dolore e nella gioia: lutti, nascite, malattie, era sempre l’ambiente del partito a ritrovarsi, con i grandi che attaccavano subito bottone sui fatti della politica o sulle questioni cittadine, sui problemi interni, sulle relazioni con gli altri partiti, sul sindacato.
Nella premessa di questo libro che racconta la generazione degli anni Cinquanta e Sessanta e del suo precipitoso transito nel XXI secolo, l’autore è chiaro, scrive che quella che ci si appresta a leggere non è un’autobiografia e che non ha la pretesa di raccontare una storia, ma che si soffermerà sulle tante storie che possono diramarsi dall’albero di una vita. Credo che in quest’albero scorra una linfa particolare: la nostalgia, sentimento da non confondere con la tristezza che affligge il depresso. Erroneamente si crede la nostalgia capace di soffocare la nostra vita nel passato, tenerci in ostaggio, chiuderci la porta della vita; non è così, anzi, nella nostalgia c'è fame di vita, di quanta se n’è fermata su cose, luoghi, volti, profumi, suoni, immagini, e di questa ci si nutre continuamente, così come ci si alimenta quotidianamente con memorie ed emozioni, ingredienti positivamente influenzati dalla nostalgia. Di certo la nostalgia ci costringe a guardare indietro, ma senza l’obbligo di allontanarci dal presente o dal futuro; è un sentimento che fa da malta, aiuta a ricostruire la nostra storia collegando gli anni che furono con i giorni nostri e, generando una visione positiva del passato, aiuta a dare continuità e senso alla vita presente e da venire. Quante volte ha dato continuità e senso alla nostra vita un semplice oggetto, luogo, volto, profumo, suono o un’immagine? Ecco qualche altro esempio di quanta e quale vita Gurrieri ha scelto di raccogliere, raccontare, custodire.
Oggetti:
I giornali servivano per mille usi in una casa, tra le altre cose, a sostituire l’inacquistabile carta igienica; Mia madre acquistava ogni tanto una bottiglietta di birra che usava per i capelli al posto della lacca, prodotto per quei tempi costosissimo.
Luoghi:
via Ibla, per la sua pendenza, era anche lo scenario per gare di calacipiti (attrezzo a due o quattro ruote realizzato con assi di legno e cuscinetti a sfera)
spesso finite male, con dita e ginocchia scorticate.
Volti:
Una mattina si presenta in stazione un vecchio arzillo dalla chioma bianca prolungata dietro il collo e dai modi gentili e ossequiosi.
Profumi:
Ricorderò sempre l’odore dei contadini, un forte concentrato di fieno, formaggio, ricotta, forse anche cacca di mucche; un odore che oggi è sparito dai loro abiti, forse anche dalle loro case, ma che allora era il loro biglietto da visita, l’abito invisibile che vestivano, e che noi abitanti della città sentivamo forte e chiaro. Chissà se anche tra loro se lo sentivano addosso.
Suoni:
Grazie a Radio Tunisi mi appassionai dei cantautori e degli interpreti migliori della canzone transalpina: Brel, Ferrè, Brassens, Ferrat, Moustaki, Barbara, Greco, Reggiani, Aznavour, e tutti gli altri, affinando nettamente i miei gusti; A casa di Nuccio, per la prima volta, ascoltai un 45 giri del fratello maggiore Giovanni, dove si pronunciava addirittura la parola “puttana”; era di un cantautore italiano sconosciuto: Fabrizio De Andrè .
Immagini:
Zia Giorgia la ricordo avvolta dalla testa ai piedi nel suo scialle nero, con perfino gli occhi nascosti dalla penombra, uscire di casa per recarsi a messa o a far surbizza, le faccende; Quando ero al buio, o se chiudevo gli occhi, rimanevo incantato dall’apparizione di tanti segnetti e puntini colorati in movimento, una sorta di allucinazione che poteva durare anche parecchi secondi .
Se terminato l’elenco avrete letto qualcosa che vi riguarda, non stupitevi: durante la lettura de
“Le verdi praterie” è successo più volte anche a me, nonostante l’avere una decina d’anni meno dell’autore (classe 1955) e l’esser nato e cresciuto a mille chilometri di distanza dal suo “spicchio di quartiere”, in un posto dove anch’io – come Gurrieri – ho avuto la fortuna di avere intorno a me “un piccolo grande universo ad animare la vita e accompagnare noi bambini nella crescita”, “un microcosmo di umanità dove ognuno sapeva cosa accadeva nella casa dell’altro, e gli scambi, il mutuo appoggio, avvenivano in ogni campo; solidarietà tra povera gente”.
Comunque, visto che a volte fa star bene ritrovare in altri qualcosa che ci riguarda da vicino, chissà che questo libro, alla fine, non lo si scopra anche terapeutico.
Marco Sommariva